Green economy, per la Cina è una scelta obbligata

In Cina le emissioni sono fuori controllo e l'inquinamento esige un tributo sempre più pesante, investendo in efficienza, ambiente e rinnovabili in 5 anni si creerebbero quasi 10 milioni di posti di lavoro e mille miliardi di euro di Pil. Lo dice uno dei think-tank più vicini al governo di Pechino, criticando l'ideologia della crescita a ogni costo.

ADV
image_pdfimage_print

Decarbonizzando la sua economia, in meno di 5 anni la Cina può creare 9,5 milioni di posti di lavoro, aumentare il Pil di 8mila miliardi di Yuan (cioè 934,7 miliardi di euro) e risparmiare energia per altri 1.400 miliardi di yuan (ossia 163,5 miliardi di euro).


Questi numeri impressionanti non vengono da un’associazione ambientalista (senza voler togliere nulla alla serietà con cui molte tracciano i loro scenari), ma da uno dei think thank più vicini al governo di Pechino, il China Council of International Co-operation on Environment and Development, (CCICED) diretto dal vicepremier Li Keqiang, che molti indicano come probabile successore di Wen Jiabao alla carica di primo ministro.


Insomma, agli stessi vertici cinesi è sempre più chiara la convenienza economica di una svolta verde più decisa per il gigante asiatico, che attualmente è sia il leader mondiale della green economy che tra i paesi più inquinati e inquinanti del mondo.


Secondo il CCICED, da qui al 2015 il governo cinese dovrebbe investire 5.770 miliardi di Yuan (674 miliardi di euro) per migliorare l’efficienza energetica, promuovere le rinnovabili e difendere l’ambiente. Si creerebbero così 10,6 milioni di nuovi posti di lavoro, si darebbe al Pil una spinta da 8mila miliardi di Yuan e si risparmierebbe energia  per altri 1400 miliardi di yuan. Molto più del lavoro e della ricchezza che andrebbero persi nelle industrie energivore e nel campo delle fonti fossili: 950mila posti di lavoro in meno e un calo del Pil di 100 miliardi di Yuan (11,7 miliardi di euro).


In occasione del suo meeting annuale il CCICED ha presentato anche una serie di altri dati (qui tutte le presentazioni), mettendo l’accento sulla necessità di accelerare la svolta verde. Tra le misure suggerite dall’influente think-tank l’introduzione di una tassa sul carbonio e nuovi meccanismi di prezzo che incoraggino l’uso efficiente di risorse scarse, come l’acqua.


Una svolta, quella verso la green economy, che, va detto, la Cina ha già intrapreso, facendo, se non ancora quanto servirebbe, certo più della maggior parte delle economie di vecchia industrializzazione. Nel suo ultimo piano quinquennale il paese si è dato l’obiettivo di ridurre del 17% entro il 2015 la propria intensità di carbonio (ossia le emissioni di CO2 per ogni punto di Pil), secondo quanto annunciato a Cancun la riduzione dovrebbe arrivare al 40-45% entro il 2020.


Obiettivi che Pechino sta perseguendo con un ampio ventaglio di misure: tassazione delle fonti fossili (Qualenergia.it, Per tagliare le emissioni la Cina tassa le risorse), promozione dell’auto elettrica, un meccanismo di emission trading regionale (ancora all’orizzonte) e incentivi a sostegno delle rinnovabili e relative filiere. L’introduzione di nuove tariffe feed-in per il fotovoltaico, ad esempio, sta facendo crescere molto il mercato interno (anche per compensare il declino della domanda in Europa), e, sempre nell’ultimo piano quinquennale è stata annunciata l’intenzione di installare nel paese (in forte deficit di energia e che conta sul carbone per quasi il 70% del fabbisogno elettrico) 235 GW di potenza elettrica da fonti non fossili (40 GW da nucleare, 120 da idroelettrico, più di 70 da eolico e 5 GW da solare).


Il problema è che le misure verdi di Pechino non sono sufficienti a compensare i danni ambientali perché la crescita economica del paese è troppo veloce (si veda, in basso, il grafico CCICED sull’aumento delle emissioni dei principali paesi). Infatti, anche se probabilmente il paese ce la farà a mantenere l’impegno sull’intensità di carbonio, le emissioni totali , come rileva un recente studio di Carbon Tracker Inistiative, stanno crescendo più veloci del previsto di almeno un miliardo di tonnellate di CO2 all’anno. Una cifra allarmante se si considera che per avere buone probabilità di rimanere sotto ai 2°C di aumento della temperatura, le emissioni mondiali nel 2020 dovrebbero essere inferiori di 44 miliardi di CO2 equivalente all’anno. E assieme alle emissioni crescono anche gli altri i costi ambientali e sanitari che la Cina deve sostenere: un rapporto di Greenpeace ad esempio quantifica che nel 2007 tra inquinamento, malattie, morti premature il solo carbone sia costato alla Cina il 7,1% del Pil.


Ecco dunque perché il CCICED nel suo meeting annuale ha messo sotto accusa l’ideologia della crescita a tutti i costi: specie a livello dei governi regionali, ha denunciato l’associazione “il perseguimento cieco della crescita economica sta diventando un ostacolo per uno sviluppo verde della Cina”. Parole che dette da un’istituzione scientifica quasi interna al governo della potenza economica simbolo di una crescita impetuosa e distruttiva hanno un valore non trascurabile.


ADV
×