Un ottimo esempio di questo concetto è contenuto nell’ultimo report di Greenpeace sul carbone, “The true cost of coal” (vedi in allegato), il vero costo del carbone. Il carbone, infatti, è considerata la fonte energetica più economica, ma nel suo prezzo di mercato sono compresi solo i costi legati all’estrazione, al trasporto e alle tasse, non i costi esterni connessi ai gravi impatti per l’ambiente e per la salute. Oltre a fornire un reportage dei danni fatti dalla filiera del carbone in vari posti del mondo, il report, con la collaborazione dell’istituto indipendente olandese “CE Delft”, tenta appunto di quantificare i costi nascosti di questo combustibile fossile.
Innanzitutto ci sono le emissioni di gas serra e i relativi effetti sul riscaldamento globale (il carbone è responsabile del 41% delle emissioni mondiali di gas serra e del 72% di quelle per la produzione di elettricità), ma i costi del carbone – sottolinea il documento – sono molti altri: deforestazione, distruzione di interi ecosistemi, contaminazione di suoli e acque (le centrali a carbone sono la prima fonte al mondo di dispersione di mercurio), violazione di diritti umani sia dei lavoratori che delle comunità che vivono nei pressi delle miniere, delle centrali e dei siti di stoccaggio. Impatti che si tramutano in danni monetizzabili, come malattie respiratorie, incidenti nelle miniere, piogge acide, inquinamento di acque e suoli, perdita di produttività di terreni agricoli, cambiamenti climatici e altro ancora.
Tutti costi di cui l’industria del carbone non risponde e che “The true costo of coal” quantifica per il solo 2007 in 356 miliardi di euro: gli impatti sulla salute lungo tutta la filiera del minerale costano circa 1 miliardo, mentre il grosso dei costi esterni, 355 miliardi, è dovuto alle emissioni di gas serra. Una cifra quella fornita dal report – sottolinea Greenpeace – che ancora sottostima i costi reali: considera, infatti, solo i danni per cui esistono dati affidabili a scala mondiale – cioè cambiamenti climatici, impatti sulla salute umana e incidenti nella lavorazione – mentre non tiene conto di altre voci come l’inquinamento, le violazioni dei diritti umani, la distruzione di ecosistemi.
Anche da questa stima approssimata per difetto è chiara comunque l’enormità di quello che il mondo perde ogni anno per gli effetti collaterali di questa fonte energetica definita ancora “economica”: in dieci anni i costi esterni danno una cifra pari a circa sei volte quanto è costato agli Stati Uniti salvare le proprie istituzioni finanziarie dalla crisi. In Cina dove si fa ricorso al carbone per i due terzi del fabbisogno energetico nazionale – aveva segnalato un precedente rapporto sempre di Greenpeace in collaborazione con alcuni economisti cinesi – i costi esterni del carbone sono pari a 7 punti di prodotto interno lordo.
Ad aggravare il tutto c’è il fatto che la quota del carbone nel mix elettrico mondiale è in continua crescita: aumentata del 30% dal 1999 al 2006, se le tutte le centrali in progettazione al momento attuale venissero realizzate da qui al 2030 crescerebbe di un altro 60%, vanificando in pratica ogni sforzo per ridurre le emissioni di CO2.