L’arma della stigmatizzazione e la bolla della CO2

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La campagna di 'disinvestimento' per spingere ad abbandonare gli asset in fonti fossili è molto pericolosa per i grandi di petrolio, gas e carbone. Più che dagli effetti diretti, i danni potrebbero venire dalla disapprovazione diffusa nell'opinione pubblica, in grado di innescare effetti a catena. Un report pubblicato dalla University of Oxford.

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La campagna di “disinvestimento per spingere ad abbandonare gli ‘asset fossili‘ sta crescendo molto più rapidamente di qualsiasi altra iniziativa simile messa in atto nel passato e potrebbe creare danni significativi all’industria di petrolio, gas e carbone. È quanto emerge da un report pubblicato dalla University of Oxford (allegato in basso).

Lo studio mette a confronto la campagna “Let’s divest from fossil fuels!” (della quale abbiamo parlato più volte) con iniziative analoghe come quella contro il tabacco, l’apartheid sudafricano, le armi, il gioco d’azzardo o la pornografia. Nonostante l’impatto finanziario diretto di queste campagne sia relativamente contenuto e non riesca a far calare in modo deciso il valore delle azioni delle attività contestate, è la conclusione, i danni alla reputazione possono recare importanti perdite alle industrie nel mirino dell’opinione pubblica.

Non che questa campagna non abbia ottenuto risultati concreti in quanto a disinvestimenti. Ad esempio il fondo scandinavo Storebrand da 74 miliardi ha rinunciato alle sue partecipazioni nel carbone e lo stesso hanno fatto diverse università e fondi pensione. L’effetto diretto della campagna è però senz’altro esiguo di fronte all’enorme capitalizzazione di aziende, quelle operanti nel settore delle fossili, che spesso sono sotto il controllo statale.

La vera arma della campagna che può portare notevoli guai alle energie fossili è invece quella della sensibilizzazione verso l’opinione pubblica: “La stigmatizzazione pone una minaccia pericolosa per le aziende delle fossili, molto maggiore dell’impatto diretto della campagna di disinvestimento”, spiega uno degli autori del report, Ben Caldecott. “In tutti i casi che abbiamo esaminato, le campagne di disinvestimento sono riuscite appieno nella loro opera di lobbying per l’introduzione di leggi più restrittive”, conclude il ricercatore.

Due risultati sulla questione fossili da questo punto di vista li abbiamo già visti: i regolamenti più stringenti introdotti di recente da Banca Mondiale e Banca europea degli Investimenti riguardo al finanziamento di progetti ad alta intensità di CO2.

“Dobbiamo considerare i rischi che si corrono investendo nei combustibili fossili. Gli investitori prudenti devono essere i primi e non seguire il gregge, preparandosi a un mondo che fa a meno dei combustibili fossili, un mondo a basse emissioni di carbonio. Se resteranno passivi, i cambiamenti nelle politiche e la pressione a disinvestire dai fossili potrebbero deprezzare e frenare i loro investimenti”, è il commento al report di Mariagrazia Midulla, responsabile Clima & Energia del WWF Italia.

Come abbiamo scritto più volte parlando della cosiddetta “bolla della CO2”, se non fermiamo subito gli investimenti in fonti fossili, dovremo scegliere tra un disastro ecologico e uno economico (ma potremmo subirli anche entrambi). Se si vuole mantenere l’impegno di fermare a 2 °C il riscaldamento globale – mostra un report firmato da Carbon Tracker e il Grantham Research Institute di Lord Stern – almeno due terzi delle riserve che le compagnie delle fonti fossili trattano come asset dovranno rimanere sottoterra.

Anche se sottoterra rimanesse in realtà solo un terzo delle riserve (la IEA calcola che questo sia sufficiente per avere il 50% di possibilità di rimanere sotto ai 2 °C) ciò sarebbe un colpo economico micidiale, qualora si continuasse come niente fosse. Secondo un report HSBC, uscito a febbraio, il valore delle azioni delle grandi aziende energetiche potrebbe crollare del 40-60%.

Se ciò accadesse prima di una graduale disintossicazione dagli ‘asset fossili’ le conseguenze a catena per l’economia mondiale potrebbero anche essere catastrofiche: la capitalizzazione legata alle risorse fossili su varie Borse al momento ha un ruolo molto importante (20-30% in Borse come quella australiana, Londra, Mosca, Toronto e San Paolo) e in questi settori hanno investito e continuano ad investire moltissimo Stati, enti locali e grandi fondi pensione. Insomma, sarebbe più prudente tirarsene fuori quanto prima.

Il report della University of Oxford (pdf)

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