Le vere ragioni di quell’assalto a rinnovabili e fotovoltaico

Da Assolettrica arriva continuo l'attacco al fotovoltaico colpevole di tutti i mali di un settore termoelettrico in profonda crisi. Quali i meccanismi comunicativi messi in atto e con quali argomentazioni? GB Zorzoli, portavoce Coordinamento FREE, smonta uno ad uno gli assunti dell'associazione dei termoelettrici e del suo presidente, Chicco Testa.

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Si possono, si devono discutere le politiche per contrastare il cambiamento climatico nel modo più efficiente ed efficace, cioè al minimo costo e col massimo di ritorni in termini economici, sociali, ambientali; riflettendo quindi anche sull’assenza o sull’inadeguatezza delle denunce degli errori commessi dai decisori politici (emblematico il caso di alcune misure a favore del fotovoltaico). Dialogare con tutti non significa però porgere l’altra guancia e lasciar passare sotto silenzio le ormai frequenti campagne di disinformazione sulle rinnovabili, di cui quella di Assoelettrica contro il fotovoltaico rappresenta l’esempio più lampante.

Nel seguito, come riferimento si prenderanno il pamphlet “Chi ha ucciso le rinnovabili?” – che ha già ricevuto una dettagliata risposta da un eBook (Rinnovabili: chi vuole uccidere la verità? – Il vero ruolo del fotovoltaico in Italia, Edizioni Ambiente) del Coordinamento FREE e l’intervista rilasciata da Chicco Testa alla Staffetta Quotidiana del 24 aprile 2013 (per brevità citati come «pamphlet» e «intervista»).

La favola dell’efficienza

Uno dei leitmotiv del pamphlet riprende un luogo comune, messo con insistenza in circolazione seguendo il detto «calunniate, calunniate, qualche cosa resterà»: investimenti così massicci in pochi anni hanno riempito il Paese di impianti fotovoltaici mediamente poco efficienti, mentre una penetrazione più lenta avrebbe consentito di sfruttarne in modo ottimale l’evoluzione tecnologica. Si afferma infatti che «il rendimento dei pannelli fotovoltaici sta migliorando di anno in anno. Giusto per fare i conti a spanne, i 16 GW (oggi oltre 18, ndr) già installati ci sarebbero costati ai prezzi di oggi non 50, ma 30 miliardi e conseguentemente non pagheremmo all’anno 6,5 miliardi di incentivi, ma più di un terzo in meno con un’efficienza complessiva più elevata.

Se poi avessimo deciso che l’investimento totale andava spalmato su un periodo molto più lungo, fino al 2020 per esempio, avremmo ridotto di molto l’impatto economico e catturato tutte le innovazioni tecnologiche intervenute nel frattempo. Invece ci siamo ingozzati di pannelli ormai di vecchia generazione pagandoli un’assurdità».

In questo passaggio si mescolano abilmente due fattori diversi, calo dei costi e incremento delle efficienze. Si fa credere che il crollo dei costi sia correlato a miglioramenti sostenuti nell’efficienza, mentre è stata sostanzialmente proprio la domanda sostenuta di moduli (in Germania e in Italia) a determinare il crollo dei loro costi.

Ebbene, la Tabella 1 riporta l’intervallo entro il quale si collocavano nel 2007 le efficienze dei moduli delle due tecnologie fotovoltaiche commercialmente più diffuse in tutto il mondo. La Tabella 2 è invece desunta dal Solar Energy Report 2012 del Politecnico di Milano. Basta confrontare i dati delle due tabelle, forniti dalla medesima fonte, per rendersi conto di quanto sia stata contenuta l’evoluzione dell’efficienza dei moduli fotovoltaici.

Incurante di questi dati, in un altro passaggio il pamphlet ribadisce che «non si sono, per esempio, posti obiettivi di efficienza o di costo, ma si è finanziato indiscriminatamente ogni tecnologia disponibile, “rallentando anziché accelerando l’innovazione tecnologica”». Con un singolare corollario: chiunque, anche vagamente, si sia occupato di innovazione tecnologica, sa che la crescita della domanda di un determinato prodotto stimola la concorrenza dalla parte dell’offerta (come si è puntualmente verificato anche per il fotovoltaico), che a sua volta stimola proprio l’innovazione.

La favola degli investimenti

Per quanto riguarda invece gli investimenti effettuati per realizzare gli attuali 17 GW di fotovoltaico, che si collocano attorno ai 40-45 miliardi di euro, leggendo il pamphlet sembra che siano andati prevalentemente all’estero, mentre un’analisi attenta fa emergere una realtà diversa. In un rapporto del 2012 di Anie-Gifi, riferito alla potenza solare installata alla fine 2011, si stima che almeno il 60% del flusso di cassa nelle varie fasi di realizzazione e gestione degli impianti è destinato a rimanere in Italia (Figura 1).

La crisi del settore, provocata nel 2012 dal Quarto e Quinto Conto Energia, ha causato la chiusura di imprese italiane o con sedi produttive in Italia. Di conseguenza, secondo l’analisi del Solar Energy Report 2013, la quota rimasta nel nostro Paese è scesa al 46%, a riprova del fatto che, contrariamente a quanto sostenuto dal pamphlet, lo sviluppo accelerato è stato il motore della crescita di attività produttive in Italia.

Sempre nel pamphlet si sostiene che di tutto l’investimento fatto in Italia «non è rimasto nulla» in termini di innovazione e ricadute industriali. Indubbiamente negli ultimi anni, oltre a una gestione poco attenta degli incentivi, il Governo ha dimostrato una limitata attenzione alla ricerca, tanto da mettere in ginocchio l’esperienza “Industria 2015”, che invece aveva visto la creazione di interessanti raggruppamenti industriali nel comparto del fotovoltaico. Tuttavia, il riconoscimento di questi limiti non giustifica un’affermazione così drastica, offensiva nei confronti degli investimenti effettuati sia da grandi gruppi, sia da piccoli imprenditori, che hanno portato a soluzioni interessanti, dai moduli integrati nell’edilizia al solare a concentrazione, dalla componentistica al mondo degli inverter.

Lo sfregio delle aree agricole

È il cavallo di battaglia del pamphlet, che parla di «truffe ai danni dello Stato e infiltrazioni malavitose in tutto questo pullulare di ‘colline di vetro’ sorte in Campania, Puglia, Calabria e Sicilia» e di «corruzioni per ottenimento delle autorizzazioni, estorsioni per aggirare limitazioni di zone protette, imbrogli sulle proprietà dei terreni e la loro destinazione, intimidazione ai danni delle imprese concorrenti e falsa fatturazione per impianti esistenti solo virtualmente». Nessuno nega l’esistenza di questi fenomeni, ma il documento si guarda bene dal ricordare come episodi del genere siano molto ridotti in relazione all’enorme quantità di interventi, e che comunque sono efficacemente contrastati anche tramite protocolli di legalità e codici di comportamento. Inoltre, anche nei casi richiamati occorre ricordare che gli autentici imprenditori del settore sono, nel caso, vittime di questi comportamenti.

Né si preoccupa di precisare di quale frazione del totale degli investimenti si sta parlando (si citano decine di inchieste, ma si omette di sottolineare che in Italia gli impianti fotovoltaici installati hanno superato quota 500.000), oltre tutto dimenticando che sono proprio i meccanismi di verifica ex-ante e di controllo ex-post, previsti dalle normative sulle rinnovabili, a fare emergere il malaffare più facilmente che in altri settori.

Affermazioni così costruite hanno l’unico scopo di creare scandalo e non rispecchiano una realtà dove la grande maggioranza degli impianti fotovoltaici è finanziata tramite meccanismi che prevedono un’approfondita verifica societaria, volta anche a eliminare ogni possibile rischio di infiltrazioni e solo previa verifica sull’affidabilità dell’azienda, sui rappresentanti legali (compreso ovviamente il rispetto della normativa antimafia), sulla correttezza amministrativa delle procedure, tramite approfondite due diligence da parte di studi legali.

Per quanto concerne l’occupazione di aree agricole, premesso che sarebbe stato preferibile che i Governi passati avessero posto un limite superiore alla potenza degli impianti a terra (per esempio 5 MW) e che gli incentivi per le taglie più elevate fossero minori, è utile chiarire le dimensioni del fenomeno. Per dare un ordine di grandezza, la superficie occupata dagli impianti fotovoltaici a terra realizzati in Italia (in diversi casi in parcheggi, cave, discariche di rifiuti esaurite, siti industriali e commerciali) equivale a quella di un quadrato di 15 chilometri di lato, pari allo 0,08% del territorio nazionale.

Inoltre, come mette in evidenza la Figura 2, il trend degli impianti di elevata potenza nel 2012 si è invertito (trend che si accentuerà nel 2013), ma di questa positiva novità nel documento di Assoelettrica non vi è traccia.

Dove vanno le risorse provenienti dagli incentivi

Sul totale degli incentivi dei Conti Energia, che ammonteranno a 113 miliardi € cumulativi al 2033, vanno fatte alcune considerazioni, che ridimensionano, e non di poco, le accuse di eccessiva rimunerazione del fotovoltaico. In Italia, a tariffe alte hanno corrisposto:

  • un tasso effettivo d’imposta del solare italiano (IRES, IRAP, IMU, tassazione dividendi, meccanismi di credito IVA), che supera il 60%: circa 2/3 degli extra ricavi da tariffa (cioè la differenza con gli incentivi di alcuni altri Paesi), pari a circa il 25% dell’incentivo, tornano quindi allo Stato come imposizione fiscale;
  • lo spread dei finanziamenti nei confronti della media europea (ma addirittura nei confronti dei mutui per le abitazioni che sono a più alto rischio bancario) è dell’ordine del 4%: ciò significa che le banche italiane usufruiscono di una rendita di circa 1 miliardo €/anno.

In conclusione, gli elevati incentivi italiani in realtà vengono in parte recuperati dallo Stato attraverso la fiscalità e per un’altra componente sono assorbiti dal sistema bancario.

Come Sistema Italia, ricordiamo poi che vanno contabilizzati i risparmi del peak shaving (vedi oltre) e quelli derivanti dalla ridotta importazioni di gas: per l’insieme delle rinnovabili si tratta di circa 9 miliardi di m3/anno in meno nel 2012, a cui il fotovoltaico ha contribuito per il 42%. Una riduzione nell’import di gas che, nello stesso anno, ha abbassato di 2,2 miliardi € il deficit della nostra bolletta energetica (64 miliardi), con 920 milioni attribuibili al fotovoltaico. E le previsioni per il 2013 indicano un risparmio aggiuntivo di gas intorno a 1,4 miliardi di m3, di cui poco meno del 50% dovuto al fotovoltaico. Va inoltre considerata la meritoria opera di rimozione delle coperture di eternit con rifacimento delle coperture e installazione di sistemi fotovoltaici che, a fine 2011, aveva già consentito di eliminare e inviare in discariche autorizzate quasi 13 milioni di metri quadrati di amianto. Da ultimo, fra i benefici vanno considerati i 0,5 mld €/a, che vengono spesi nel Paese per le attività di manutenzione e creano posti di lavoro qualificati e stabili.

La favola dell’imbroglio

Se il solito marziano, per sua disgrazia piombato in mezzo a noi, ascoltasse la rappresentazione che Chicco Testa fa dei produttori elettrici, penserebbe di avere a che fare con imprese in difficoltà a causa di imbrogli perpetrati a loro danno. Gli hanno detto «Go West, young man» ma, invece di sconfinate praterie, hanno trovato un terreno disseminato di trappole, responsabili delle difficoltà provocate dalla sovraccapacità produttiva. Questo assunto costituisce l’asse portante di tutta la campagna di Assoelettrica, ma trova la sua sintesi in due passaggi dell’intervista. «La riforma Bersani era ottima, ha spinto le aziende a fare investimenti importantissimi che hanno rinnovato completamente il parco termoelettrico italiano. Quando eravamo pronti a fare la nostra parte – tra l’altro con il prezzo del gas che scendeva – è arrivata questa botta che ha cambiato le carte in tavola e ha fatto sì che il mercato libero praticamente non esista più. Il 50% circa dei volumi e il 60% del fatturato del settore deriva da vari regimi amministrati». «Se nel ‘98 qualcuno avesse detto alle aziende elettriche che nel 2007 avrebbero fatto partire un ciclo di investimenti incentivato, forse si sarebbero comportate diversamente». Chicco Testa dimentica però alcuni dettagli. Proprio nel 1998 le bozze del decreto Bersani (che sarebbe stato approvato dal Consiglio dei ministri il 19 febbraio 1999) erano oggetto di un acceso dibattito, cui partecipavano attivamente le aziende elettriche.

Nel testo allora in circolazione, oltre a tutte le norme per garantire l’apertura del mercato elettrico, in attuazione della Direttiva 92/96/CE erano state inserite anche la priorità di accesso alla rete «dell’energia elettrica prodotta a mezzo di fonti energetiche rinnovabili e di quella prodotta mediante cogenerazione» (art. 3, comma 3) e le misure di incentivazione delle rinnovabili (art. 11), necessarie per ottemperare agli impegni assunti nel 1997 all’interno del Protocollo di Kyoto.

Il «ciclo di investimenti incentivato» era quindi già presente nelle bozze disponibili nel 1998 e, insieme alla priorità di accesso alla rete, di lì a pochi mesi sarebbe diventato norma. Insomma, già il decreto Bersani limitava la quota di mercato contendibile, destinandone un’altra quota, destinata a crescere, alle rinnovabili e alla cogenerazione (allora, in pratica, i soli impianti CIP6, che hanno consentito ad alcune importanti aziende elettriche di farsi le ossa grazie a generosi incentivi, destinati a fine corsa a pesare sui consumatori per diverse decine di miliardi, ma di questo Testa non parla mai).

D’altronde, che le aziende elettriche fossero consapevoli della dinamica in atto, lo conferma uno dei passaggi centrali della relazione del presidente di Assoelettrica all’assemblea annuale dell’Associazione del 14 giugno 2006: «Nel segmento della generazione sono stati costruiti, o in fase di realizzazione, nuovi impianti greenfield a ciclo combinato per una potenza complessiva di 13.500 MW […] Sono in attesa di realizzazione circa 6.000 MW già autorizzati, la cui entrata in esercizio è destinata a proiettarsi all’inizio del futuro decennio. Ai valori della nuova capacità termoelettrica vanno aggiunti quelli degli impianti a fonti rinnovabili che, da qui alla fine del decennio, dovrebbero far registrare una crescita di potenza valutabile in almeno 2.500 MW, peraltro insufficiente per il raggiungimento degli obiettivi fissati in sede europea. […] I risultati di questa imponente iniziativa, tra l’altro intervenuta in un contesto tutt’altro che stabile e definito, consentiranno al Paese di disporre di un parco di generazione di primo ordine in termini di efficienza e di modernità e di un adeguato margine di riserva» (secondo corsivo mio).

«Obiettivi fissati in sede europea», che non potevano più essere solo quelli del Protocollo di Kyoto, visto che nel gennaio dello stesso 2006 una comunicazione della Commissione europea aveva lanciato il pacchetto clima/energia, tanto che già nel 2007 (prima dell’insorgere della crisi economica, che ha quindi solo aggravato la situazione) sulla rivista Energia, Alberto Clô e Stefano Verde scrivevano che con l’attuazione del pacchetto «la quota di produzione lorda da FER potrà arrivare a coprire […] il 40% di quella italiana», cui va aggiunto l’apporto degli impianti cogenerativi.

Ciò nonostante, le aziende elettriche hanno continuato a investire in impianti a cicli combinati. Così, secondo le statistiche pubblicate da TERNA, a fine 2011 la potenza dei cicli combinati in puro assetto elettrico era salita a 25.065 MW e, secondo il Rapporto del luglio-dicembre 2012 del Ministero dello Sviluppo Economico sull’andamento delle autorizzazioni, nel 2012 si sono aggiunti altri 1.150 MW, tutti entrati in esercizio nel primo semestre. Siamo quindi arrivati a quota 25.000 MW, a seguito di scelte imprenditoriali poco ponderate, a cui anche il pamphlet accenna, ma in termini eufemistici: «Probabilmente alcune imprese hanno fatto qualche investimento di troppo» (corsivo mio). In realtà, rispetto alla potenza considerata sufficiente nel 2006, si è raggiunto un surplus di circa 6.500 MW. Poiché lo stesso Chicco Testa ha stimato in 2.440 ore il funzionamento medio, nel 2012, dei cicli combinati in puro assetto elettrico, a parità di altre condizioni, senza questa zeppa aggiuntiva, nel 2012, i cicli combinati sarebbero potuti arrivare a 3.250 ore, un incremento del 33%, niente affatto trascurabile.

La colpa del fotovoltaico

Poiché parte dall’assioma che negli investimenti in cicli combinati al massimo si sono commessi degli errori veniali, per giustificare l’attuale situazione di sovraccapacità dalla quale, come lui stesso dichiara nell’intervista, «non risaliremo più, o comunque ci resteremo a lungo», Chicco Testa deve trovare un colpevole su cui scaricare tutte le responsabilità. Naturalmente esterno. Sotto questo profilo il fotovoltaico è la vittima ideale. Si tratta infatti di una tecnologia non molto popolare nemmeno all’interno del variegato mondo delle rinnovabili. Ultima arrivata, in pochi anni è balzata al primo posto nella produzione elettrica dovuta alle nuove tecnologie verdi. Oltre tutto, grazie anche a qualche eccesso nelle misure di incentivazione (macroscopico è il caso dell’emendamento al decreto “salva Alcoa”), non gode di buona stampa. Non a caso, già dal titolo il pamphlet lo accusa di avere ucciso le altre rinnovabili. È l’anello debole della catena, il più facile da far saltare. Tuttavia, basta scorrere i dati di Tabella 3 per rendersi conto che nel 2012 il fotovoltaico ha fornito solo il 20,3% dell’energia elettrica prodotta con fonti rinnovabili e il 41,8% di quella con nuove tecnologie.

Un contributo importante, ma non esclusivo, come le affermazioni di Assoelettrica potrebbero far credere. Eccone la riprova. Nel 2012 la produzione dei cicli combinati è stata intorno a 61 TWh. Sempre nel 2012, il fotovoltaico ha generato 18,8 TWh. Supponiamo una produzione dimezzata, grazie a misure d’incentivazione molto restrittive. Se la quota di offerta così liberata fosse andata tutta ai cicli combinati (ipotesi ottimistica), il loro numero medio di ore di funzionamento sarebbe arrivato intorno a 2.800, ancora largamente insufficiente. Perfino un draconiano divieto di installare impianti fotovoltaici in Italia avrebbe portato a rasentare 3.200 ore, cioè una cifra lievemente inferiore a quella che si sarebbe ottenuta limitando la potenza installata ai 19.500 MW, indicati come sufficienti nel 2006. Individuare il massimo responsabile della overcapacity nel fotovoltaico, a dispetto di cifre incontrovertibili che dimostrano il contrario, accusandolo di avere in parallelo danneggiato anche le prospettive delle altre rinnovabili, è però funzionale al tentativo di bloccarne lo sviluppo, per evitare la crescita del peak shaving, negativo per le aziende elettriche, ma positivo per i consumatori.

Infatti, il fotovoltaico ha soprattutto il torto di produrre energia nella fascia centrale del giorno, cioè in ore di domanda elevata, quando di conseguenza i prezzi del kWh raggiungevano i loro valori più alti. In tal modo, contemporaneamente toglie quote di mercato alla produzione dei cicli combinati e abbassa il prezzo dell’energia (Figura 3). Malgrado il tentativo di recupero da parte delle aziende elettriche nelle ore successive, quando il fotovoltaico esce di scena (Figura 4), complessivamente i consumatori ne traggono un vantaggio.

La riduzione netta dei prezzi, imputabile al solo fotovoltaico, secondo l’IREX Annual report 2013, è stata pari a circa 838 milioni nel 2012 ed è destinata a incrementarsi ulteriormente, in presenza di un volume crescente di impianti alimentati da fonti rinnovabili. Non a caso Chicco Testa si è prodotto in accanite smentite plurime di questo dato, che sconfessa l’immagine totalmente negativa costruita per il fotovoltaico.

Provincialismo voluto

Il pamphlet tende a rappresentare i problemi, effettivi, posti dall’overcapacity, come se fossero il portato di una politica dissennata a favore soprattutto del fotovoltaico, portata avanti esclusivamente dall’Italia. Le ragioni della scelta sono evidenti. Non si è contro le rinnovabili, nemmeno contro il fotovoltaico; si combatte una legittima battaglia contro gli eccessi di cui si è macchiato … chi? Non il Governo, quello va trattato bene. Non il Parlamento, anche se ha approvato l’emendamento al decreto “salva Alcoa”. Nemmeno l’Europa. Il solito marziano, leggendo il pamphlet, si convincerebbe che le misure troppo permissive sono state decise da chi ha investito nel settore, attraverso meccanismi poco chiari, sui quali, per carità di patria, il pamphlet tace. Ne scaturisce una patina di provincialismo che ricopre l’intero testo. A essere negletta non è solo la sequenza delle decisioni assunte a livello comunitario, con l’assenso dell’Italia, ma anche un’altra, non marginale circostanza. La lotta al cambiamento climatico, che nell’ultimo ventennio è stata il motore primo della politica energetica europea, circostanza sulla quale il pamphlet sorvola, anche altrove sta portando a una ristrutturazione del parco centrali.

Per esempio E.On, primo produttore elettrico tedesco, per bocca del suo amministratore delegato ha annunciato la chiusura in Europa di gruppi elettrici per circa 11 GW (potenza probabilmente destinata a crescere), perché non più redditizi. Con la conseguente decisione di rinviare al 2015 l’impegno di costruire in Sardegna, a Fiume Santo, un gruppo a carbone da 410 MW in sostituzione dei due esistenti, a olio combustibile. Un rinvio che ha tutta l’aria di un disimpegno mascherato.

Anche Gdf-Suez chiuderà in Olanda e Ungheria cinque gruppi a cicli combinati, per un totale di 2,1 GW, ed è allo studio la fermata di altre unità, per complessivi 3,3 GW. Secondo il quotidiano economico francese Les Echos, a partire dal 2009 GdF-Suez ha già fermato dieci centrali per complessivi 5,2 GW. E siamo solo all’inizio.

Secondo il rapporto The unsubsidised solar revolution, pubblicato il 15 gennaio 2013 dalla banca svizzera UBS, i prossimi anni vedranno una rapida crescita del fotovoltaico in Europa anche in assenza di incentivi.

Lo studio analizza i casi di Germania, Italia e Spagna, stimando che nel 2020 ci potrebbero essere 43 GW fotovoltaici installati senza incentivi diretti, in parte accoppiati a sistemi di accumulo, con un’incidenza sulla produzione termoelettrica compresa tra il 6 e il 9% (Figura 5). L’analisi effettuata da UBS sottolinea inoltre che la sola espansione non sussidiata del solare al 2020 comporterebbe, in Germania, un calo medio del 10% del prezzo del kWh sul mercato elettrico, con ulteriori difficoltà per gli operatori elettrici tradizionali, che si vedrebbero dimezzare i profitti. Da qui il segnale dell’Istituto bancario a vendere le azioni di una serie di utility tedesche, spiazzate dalle novità. È dunque comprensibile la reazione degli interessi colpiti.

Ostacoli al futuro

L’evoluzione descritta dal rapporto dell’UBS fornisce una delle due chiavi interpretative delle ragioni alla base della decisione di produrre un pamphlet di denuncia dei costi indebiti del solare, proprio quando gli incentivi diretti al fotovoltaico sono ormai al termine.

Più che il passato, si teme il futuro. Ed è questo il momento appropriato per cercare di frapporre ostacoli a una linea di tendenza non gradita. Per il fotovoltaico siamo infatti a una svolta cruciale. Con la conclusione del Quinto Conto energia la fase degli incentivi va considerata chiusa, posizione che il Coordinamento FREE ha ribadito nel suo Documento programmatico. Quando nell’intervista Chicco Testa afferma che «Non si può parlare di grid parity e poi chiedere, come hanno fatto al convegno del Free, un sesto Conto energia», fa di nuovo disinformazione. Al convegno di cui parla, in un solo intervento di una persona esterna a FREE è stata per inciso avanzata questa ipotesi, lasciata cadere nel vuoto da tutti gli altri, intervenuti come relatori o nel dibattito.

Nel Documento programmatico chiediamo sostanzialmente il proseguimento/potenziamento della detrazione fiscale in essere, la piena applicazione del Servizio Efficiente di Utenza (SEU), l’innalzamento del limite di potenza sotto il quale è possibile lo scambio sul posto, misure affinché le banche aprano linee di credito a tassi ragionevoli, ecc.; tutte misure, tranne i crediti a tassi ragionevoli, suggerite anche dagli studiosi del Politecnico di Milano nel Solar Energy Report 2013, che attivano investimenti e occupazione, nel caso delle detrazioni fiscali fanno emergere quote di lavoro in nero, con la SEU riducono il costo dell’energia per il consumatore allacciato. Nel complesso, oltre tutto, generano introiti per lo Stato largamente superiori alle mancate entrate per le agevolazioni fiscali. Assoelettrica è ferocemente contraria a queste misure.

Il perché lo si comprende esaminando le Figure 6, 7 e 8, tratte dal Solar Energy Report 2013. A inizio 2013, in assenza di incentivi, in Italia la competitività del fotovoltaico è limitata a un numero molto ristretto di applicazioni (Figura 6). La situazione diventa molto più favorevole, se alle diverse applicazioni è consentito di adottare le misure più appropriate fra quelle sopra elencate (Figura 7). In tal modo si garantirebbe uno sviluppo razionale del settore, che produrrebbe ulteriori riduzioni di costo, di modo che già nel 2015 diverse tipologie potrebbero stare sul mercato senza misure di supporto (Figura 8). Se non si riesce a mettere immediatamente uno stop a misure, in parte rilevante peraltro già previste dalla normativa in essere, già fra un paio d’anni non sarà più possibile bloccare lo sviluppo autopropulsivo del fotovoltaico, con le sue ricadute positive in termini economici, sociali, ambientali. Detto altrimenti, la corsa del fotovoltaico in Italia, che certo poteva essere gestita meglio dal Governo, ha contribuito alla forte riduzione dei prezzi sul mercato mondiale e ha avviato una transizione del sistema energetico, che non sarebbe avvenuta seguendo un’evoluzione “naturale”, condizionata dal sistema elettrico dominante.

La crescente pressione da parte dei grandi produttori elettrici perché passi una misura di sussidio finanziario (impropriamente chiamata capacity payment), in grado di porre almeno in parte rimedio agli errori commessi, fornisce la seconda chiave interpretativa (che trova inquietanti riscontri nel documento per la consultazione dell’Autorità per l’energia 183/2013/R/EEL. Con gli attuali chiari di luna, essendo impensabile di aggiungere ulteriori oneri alla bolletta elettrica, si punta a una riduzione retroattiva degli incentivi per le rinnovabili). Stiamo insomma entrando nella fase, sempre complessa e irta di difficoltà, in cui il cambio in atto del tradizionale paradigma energetico provoca reazioni di segno opposto. Una transizione, dunque, irta di difficoltà.

Anche se non è possibile immaginarne in modo dettagliato l’evoluzione, un dato è certo: ciò che è, non sarà. L’assetto attuale, dove domina la logica top-down, con le sue rigide gerarchie, incomincia già ora a essere sostituito da una configurazione più articolata, in cui i flussi energetici viaggiano indifferentemente dall’alto in basso, dal basso verso l’alto, in orizzontale; e obbligano le reti ad adeguarsi, trasformandosi radicalmente. Sfuma perfino la tradizionale distinzione fra venditore e acquirente, in quanto sempre più spesso in tempi diversi il medesimo soggetto assume entrambi i ruoli. Forse alla fine diverremo tutti fornitori/fruitori di servizi. Attività tradizionali ne usciranno sostanzialmente modificate, in qualche caso cederanno il passo a nuove produzioni, a nuovi servizi. Se questo viene già oggi vissuto da alcuni in modo traumatico, in larga misura lo si deve al gap di governance di cui da troppo tempo soffre il Paese.

È giusto, è doveroso che il mondo delle aziende elettriche reagisca e pretenda Governi capaci di gestire la transizione energetica. Questo, però, non può rappresentare un alibi per arroccarsi in difesa dello status quo. Anche tali aziende devono fare la propria parte. In tal caso troveranno interlocutori aperti e propositivi. Il comparto dell’efficienza energetica delle rinnovabili è infatti intenzionato ad affrontare responsabilmente le problematiche connesse con la transizione energetica. Nel caso specifico di cui ci occupiamo qui, cercando insieme al mondo della generazione termoelettrica le soluzioni più idonee ad affrontare la sfida epocale che ci aspetta.

L’articolo è stato pubblicato sul n.3/2013 della rivista bimestrale QualEnergia con il titolo “Assalto alle rinnovabili”

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