Il primo ETS della Cina, ma parte già azzoppato

Da oggi anche in Cina, nella città di Shenzhen, è in vigore un meccanismo di tipo 'cap and trade' per contenere le emissioni di CO2. E' una delle sette prove che Pechino ha deciso di mettere in piedi prima di lanciare uno schema nazionale nel 2015. Ma l'ETS di Shenzhen rischia di ripetere l'errore europeo e parte già in eccesso di permessi.

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Da oggi anche in Cina è in vigore un meccanismo di tipo cap and trade per contenere le emissioni di CO2. E’ partito infatti il progetto pilota di Emission Trading Scheme (ETS) della municipalità di Shenzhen, città fortemente industrializzata di circa 10 milioni di abitanti ai confini con Hong Kong. E’ una delle sette prove di mercato delle emissioni che Pechino ha deciso di mettere in piedi per decidere se  come lanciarne uno nazionale nel 2015.

Lo schema è ampiamente modellato sull’ETS europeo e impone di acquistare permessi ad emettere alle compagnie elettriche e alle industrie di Shenzhen, una delle aree a più rapida crescita della superpotenza orientale. Obiettivo è ridurre l’intensità di CO2 (cioè il rapporto tra Pil ed emissioni) della città del 21% dal 2010 al 2015. Lo schema copre emissioni per circa 31,7 milioni di tonnellate di CO2 l’anno (alla baseline del 2010), il 38% delle emissioni totali di Shenzhen. La lista ufficiale delle aziende coinvolte non è ancora disponibile, ma a quanto riporta Point Carbon sono 365 imprese tra cui grandi nomi come PetroChina, CNOOC, China Resources e Huawei. I primi permessi ad emettere oggi sono stati acquistati a 28-30 yuan a tonnellata, cioè 3,43-3,68 euro/ton.

Chiaro che il nuovo ETS cinese abbia gli occhi del mondo puntati addosso. Dopo Shenzen, nel giro di un anno, partiranno altri mercati locali delle emissioni a Pechino, Shangai, Tianjin, Chongqing e nelle province di Guangdong e Hubei. Per dare un’idea delle dimensioni, questi progetti pilota, secondo uno studio del governo australiano (allegato in basso), coprirebbero 256 milioni di persone e il 3,4% dell’economia globale. Quando i 7 nuovi schemi cinesi saranno operativi e si affiancheranno dunque a quelli dei 48 tra stati e nazioni nel mondo che finora ne hanno adottati, il 20% delle emissioni mondiali sarà coperto da meccanismi di tipo cap and trade.

Se i progetti pilota locali dimostreranno di funzionare in maniera efficace, come detto, nel 2015 la Cina passerà ad un ETS su scala nazionale, elemento che potrà essere una grande spinta per i negoziati internazionali sul clima. Uno dei grandi freni a un accordo per ridurre le emissioni infatti sono state finora le accuse alla Cina, maggior emettitore mondiale, di fare troppo poco per tagliare la CO2. In realtà la Cina, pur rifiutando obiettivi vincolanti, già da tempo sta agendo con relativa decisione per ridurre la sua intensità energetica e le sue emissioni. Il paese infatti sta vivendo sulla propria pelle gli impatti in termini di danni sanitari e ambientali della sua dipendenza dal carbone, che copre circa il 70% del suo fabbisogno energetico (QualEnergia.it, La Cina prova a disintossicarsi dal carbone).

Difficile invece capire quanto efficace potrà essere nel ridurre la CO2 e promuovere le tecnologie low carbon un ETS cinese: davanti agli occhi abbiamo la parabola di quello europeo che, piagato da eccesso di permessi e prezzi della CO2 bassi, si sta rivelando sempre più inadeguato. Proprio per evitare l’eccesso di permessi lo schema partito oggi a Shenzhen prevede un meccanismo di calibrazione ex-post, che consente di rimodulare il volume dei permessi in base alle emissioni effettive. Stando a quanto riporta Point Carbon, però, questo primo ETS cinese già parte con un oversupply di permessi per 10 milioni di tonnellate di CO2 per la fase 2013-2015, e il meccanismo dell’aggiustamento ex-post non basterà a correggere la stortura.

Il report del governo australiano (pdf), a pag 13 l’analisi sui nuovi ETS cinesi

 

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