Grid parity fotovoltaico, quando l’arbitro decide di alzare l’asticella

L'Autorità per l'Energia ci sta dicendo che i costi di mantenimento e sviluppo della rete e del sistema elettrico non devono più essere ripartiti in base ai prelievi di elettricità dalla rete, ma sui consumi, anche quelli dal mio impianto fotovoltaico. Si tratta di una posizione radicale di politica energetica, e non certo di una misura regolatoria. Una approccio che non sta in piedi, nemmeno nei numeri.

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Era nell’aria. Da mesi l’Autorità parlava, in consessi pubblici e privati, di generazione distribuita come fuga dal mercato. Parlava più del futuro, della potenziale diffusione di fonti rinnovabili non incentivate presso le utenze, che del presente, rappresentato da almeno 25 terawattora di produzione fossile presso gli insediamenti storici della manifattura italiana, da sempre esentati dalla copertura dei costi del sistema elettrico. Eravamo preparati ad un atteggiamento cauto, per non dire critico, dell’Autorità rispetto alla generazione distribuita. Ma mai ci saremmo aspettati di leggere le premesse del documento di consultazione 183/13 (vedi Qualenergia.it, L’Autorità per l’Energia all’attacco dell’autoconsumo: si paghino gli oneri).

Perché una cosa è tagliare incentivi, una cosa è eliminare benefici ad hoc quali l’esenzione dagli obblighi di programmazione della produzione, ben diverso è intervenire su elementi costitutivi del sistema elettrico al fine precipuo di prevenire la diffusione di soluzioni che non necessitino di incentivazione esplicita. Alla prospettiva di tecnologie in grado di confrontarsi con l’asticella della grid parity, l’arbitro decide di alzare l’asticella.

Il documento di consultazione, pur nel linguaggio specialistico degli atti tecnici, include un vero e proprio policy statement: i costi di mantenimento e sviluppo della rete e del sistema elettrico (inclusa l’incentivazione delle rinnovabili) non devono più essere ripartiti in base all’utilizzo del sistema (misurato dai prelievi di elettricità dalla rete), ma dei consumi: se copro parte del mio fabbisogno con un impianto fotovoltaico sul tetto, questa diventa base imponibile incrementale rispetto a quella intercettata dal contatore.

Prima ancora che il merito, è il metodo che lascia basiti. Assoggettare la generazione distribuita a oneri di rete e di sistema è, in tutta evidenza, una decisione radicale di politica energetica, non una misura regolatoria. La SEN, che la si apprezzi o meno, è fresca di stampa: perché l’Autorità, nelle premesse di un atto tecnico, avanza una proposta che spazza via l’idea stessa di grid parity (ossia di competitività con il prezzo finale del kilowattora)? Per quale ragione l’Autorità non è uscita allo scoperto nell’ambito della consultazione pubblica sulla SEN?

E veniamo al merito. In tutti i mercati liberalizzati il sistema elettrico funziona così: sul mercato all’ingrosso si forma un prezzo dell’energia, e in bolletta finiscono il prezzo dell’energia e una serie di componenti amministrate che remunerano i costi di rete e di sistema. Alcune delle componenti amministrate sono imputate in misura fissa, altre in misura variabile proporzionalmente all’elettricità prelevata dalla rete. Intervengono spesso scelte esplicite o implicite di politica energetica o economica, tese a favorire o penalizzare alcune categorie di utenze o stili di consumo.

Chiaramente questo non è un metodo perfetto. Da una parte riflette stratificazioni storiche di norme, dall’altra modalità di ripartizione perfettamente razionali complicherebbero a dismisura la bolletta. Ma se allocare oneri di rete e di sistema in proporzione ai prelievi dalla rete non è necessariamente coerente con l’origine di tali costi, qual è la logica di allocarli in base ai consumi? Che razionalità c’è nel far partecipare produzione rinnovabile non incentivata – e che in quanto tale genera esternalità positive gratis per la comunità – alla copertura del costo di quella incentivata? Se davvero la proposta dell’Autorità fosse ispirata ad un principio di razionalità, l’incentivazione delle rinnovabili non dovrebbe essere ripartita sugli usi di combustibili fossili, con una carbon tax lato generazione, e quindi internalizzata nel prezzo all’ingrosso dell’elettricità?

Certo, i numeri in gioco avrebbero effetti dirompenti sulla competitività relativa del carbone rispetto al gas. Salterebbero i privilegi garantiti dall’attuale sistema di esenzioni (quelle vere, non quelle potenziali). Eolico e fotovoltaico diventerebbero competitivi sul mercato all’ingrosso, senza incentivi. E allora? Non si può predicare efficienza allocativa solo quando fa comodo.

Diciamo le cose come stanno, e ognuno si prenda le sue responsabilità: la storia dell’erosione della base imponibile non sta in piedi. Per arrivare ad un aggravio significativo (1,3 centesimi a kilowattora) per le utenze che non adottino generazione distribuita, l’Autorità deve ipotizzare 64 terawattora di autoconsumo incrementale. Sessantaquattro! È il 120% di tutta la produzione idroelettrica in un anno di grazia. Il doppio di tutta la produzione eolica e fotovoltaica attuali. Ma di cosa stiamo parlando? La SEN proietta 1 GW annuo di fotovoltaico da qui al 2020: 9 terawattora totali, solo in parte autoconsumati.

E se pure succedesse, cosa ne sarebbe del prezzo all’ingrosso dell’elettricità? Se 19 terawattora di fotovoltaico hanno affondato il PUN diurno, 64 di generazione rinnovabile distribuita non limerebbero altri 13 euro? E il taglio di un terzo dell’import di gas e carbone per usi termoelettrici, non varrebbe nulla? E i benefici ambientali (dai quali, ogni tanto giova ricordarlo, è partito tutto)? Autoconsumare un simile volume di energia imporrebbe la diffusione (sempre senza incentivi) di dispositivi di accumulo: il dispacciamento del sistema ne risulterebbe trasformato, in economia e sicurezza. Non conta?

Rimossi gli orpelli, l’Autorità sta dicendo che a regole attuali la diffusione di fonti rinnovabili in grid parity ridurrebbe il benessere aggregato (nell’accezione microeconomica) di famiglie e imprese. Dispiace dirlo, ma è un’affermazione che non passa il test del buon senso.

 

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