La bolla dei mutui subprimes del gas da scisti

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Lo shale gas ha suscitato molte speranze, specie negli Usa dove ha rivoluzionato il panorama facendo crollare il prezzo del gas. Ma secondo due report del Post Carbon Institute si tratta di un'illusione, sostenuta anche da operazioni finanziarie non sempre in buona fede: la produttività dei pozzi crolla rapidamente e la bolla potrebbe scoppiare presto.

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Un ottimismo probabilmente ingiustificato, una rinnovata abbondanza solo apparente che ha però l’effetto collaterale di incanalare altri investimenti nel vicolo cieco delle fonti fossili. In questi ultimi anni il mondo dell’energia sta riponendo molta fiducia nelle fonti fossili non convenzionali: specialmente gli Usa sono in piena euforia da shale gas e contano di averne “per oltre 100 anni”. Anche sul versante petrolio ci sono grandi speranza, come da previsioni IEA, il paese conta di divenire un esportatore netto grazie al greggio da scisti e da sabbie bituminose. La realtà però potrebbe essere ben diversa: quella dello shale gas e del petrolio non convenzionale – spiegano due nuovi report del Post Carbon Institute – è una bolla destinata a dissolversi e una bomba economica che potrebbe scoppiare nelle mani di investitori ignari come i fondi pensione.

Anche senza tenere conto delle pesanti ricadute ambientali, la speranza instillata dalle nuove tecniche, come il fracking e le trivellazioni orizzontali, che permettono di estrarre riserve fossili prima inaccessibili, secondo il primo dei due report (qui in pdf) si infrangerà infatti su limiti fisici: si tratta di pozzi che si esauriscono a ritmi incredibilmente veloci: si parla declini della produttività dell’80-95% nei primi 3 anni. A questo si collega la denuncia che arriva dal secondo report, che esamina l’aspetto finanziario: lo shale gas si sta vendendo a un prezzo non sostenibile e il motivo è nelle operazioni finanziarie di compravendita di pozzi e derivati sulla produzione, che stanno facendo guadagnare Wall Street su risorse che in realtà valgono meno di quello per cui vengono scambiate.

La fotografia del mondo shale che si dà è quella di riserve quasi ‘usa e getta’, che spingono a trivellare freneticamente per mantenere la produzione. Sempre riferendosi al panorama Usa, per quel che riguarda lo shale gas, 6 pozzi forniscono l’88% della produzione e i maggiori 5 hanno tassi di declino della produttività dall’80 al 95% sui primi 36 mesi. In generale dal 30 al 50% della produzione di gas da scisti deve essere rimpiazzata ogni anno con nuovi pozzi: per mantenere il livello si dovrebbero trivellare 7.200 nuovi pozzi l’anno. Servirebbe cioè un investimento di 42 miliardi di sollari l’anno: una cifra nettamente superiore ai ricavi dalle vendite, che sono di 33 miliardi l’anno. Non cambia molto nel campo del tight oil o shale oil, il petrolio da scisti: qui 2 pozzi coprono l’80% della produzione Usa e hanno tassi di declino della produttività dall’81 al 90% sui primi 24 mesi. Assieme potrebbero dare 5 milioni di barili: “10 mesi di consumi Usa”.

Perché dunque queste risorse vengono dipinte come la speranza energetica del futuro? Gli analisti economici e le banche d’investimento sono stati tra i più accesi sostenitori di questa fonte e una chiave di lettura potrebbe stare nel secondo report, che analizza la questione dal punto di vista finanziario (qui in pdf). Nel 2011 le operazioni di fusione e acquisizione legate allo shale a Wall Street hanno raggiunto il volume di 46,5 miliardi di dollari e sono diventate il più grande centro di profitto per diverse banche d’investimento. Questo è avvenuto nonostante i pozzi in questo periodo non abbiano mantenuto le promesse in termini di resa: gli operatori hanno sovrastimato le riserve di shale gas e shale oil dal 100 al 500% rispetto alla produzione effettivamente registrata.

Per portare la produzione ai livelli attesi si è spinto a trivellare ancora di più, arrivando a un eccesso di offerta, che ha spinto i prezzi tanto in basso da essere quasi insostenibili: come abbiamo visto sopra, per mantenere la produzione servirebbero più investimenti di quanto si ricava dalla vendita. I prezzi bassi hanno aperto la porta ad altre fusioni e acquisizioni, che hanno fruttato miliardi alle banche d’investimento. Molti pozzi sono stati venduti a grandi dell’energia ma si sono anche messi in circolazione strumenti finanziari complessi come i VPP (volumetric production payments) spesso piazzati, assieme ad altri asset su riserve non provate, a investitori con poca dimestichezza con le complesse dinamiche della produzione da fossili come i fondi pensione.

Una dinamica che ricorda in maniera preoccupante quella che ha innescato la crisi: la corsa nel 2007 a scaricare ad altri i famigerati subprimes sui mutui. Titoli che altro non erano che promesse che non potevano essere mantenute, proprio come quella che i dati sul declino della produzione dei pozzi ci mostrano essere quella del gas e del petrolio da scisti.

Il report sull’esaurimento delle riserve (pdf)

Il report sulla situazione finanziaria (pdf)

 

 

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