Il soccorso ai cicli combinati e a quei 25 miliardi di investimenti

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Tra concorrenza delle rinnovabili e sovraccapacità, la crisi del termoelettrico si fa sempre più acuta. Fare cicli combinati è stata una scelta consapevolmente sbagliata, a prescindere dallo sviluppo del fotovoltaico. Ma ora ci sono miliardi di investimenti a rischio. E, secondo G.B. Zorzoli, il salvagente del capacity payment è l'unica strada percorribile.

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Tra concorrenza delle fonti rinnovabili e sovraccapacità, la crisi del termoelettrico si fa sempre più acuta. L’allarme è stato lanciato nei giorni scorsi anche dai sindacati e, secondo l’AD di Sorgenia e presidente di Energia Concorrente, Massimo Orlandi, il prossimo anno sono a rischio di “messa in conservazione” ben 19 impianti per 15.000 MW. Uno scenario impressionante, specie per gli impianti a ciclo combinato a gas, che rischiano di non ripagarsi e che sono i più colpiti dalla concorrenza del fotovoltaico e delle altre rinnovabili elettriche. Ora però, proprio per questi impianti, è arrivato in soccorso un emendamento del decreto sviluppo, quello che introduce, prima del previsto, il cosiddetto capacity payment, ossia la remunerazione non solo per la produzione ma anche per i servizi di dispacciamento che garantiscono al sistema elettrico con la loro flessibilità (Qualenergia.it, Ora spunta il soccorso alle fossili, danneggiate dal fotovoltaico, Sicurezza reti, tra capacity payment e distacco rinnovabili e Veicoli elettrici, detrazioni, capacity payment: le novità del DL sviluppo). Ne parliamo con l’ingegner G.B. Zorzoli, esperto di mercato elettrico e presidente della sezione italiana dell’International Solar Energy Society.

Professor Zorzoli, come sta reagendo il termoelettrico alla concorrenza delle rinnovabili?

Continuiamo ad assistere alla crisi dei cicli combinati. Una crisi testimoniata anche da recenti interventi, come il documento di Confindustria Energia (vedi qui, ndr), che dedica un intero capitolo – dal significativo titolo di “L’amnesia elettrica” – al problema, secondo l’associazione trascurato dal Governo, sottolineando le criticità di un settore che vede impianti in crisi o a rischio chiusura. La stessa cosa emerge dalla lettera dei sindacati degli elettrici al ministro Passera, in cui denunciano la situazione dicendosi addirittura disposti a fermare gli impianti, cosa senza precedenti.

Ma la causa della crisi di questi impianti è solo nella concorrenza delle rinnovabili, o va cercata anche altrove? Per esempio nell’alto prezzo del gas e nell’eccesso di capacità rispetto alla domanda

Sarebbero in crisi anche senza la presenza delle rinnovabili. Nel 2010 quando la produzione da fotovoltaico era poco più di un decimo di quella prevedibile quest’anno e i cicli combinati già funzionavano con uno spark spread (la differenza tra costo del combustibile e prezzo di vendita dell’energia, che deve coprire tutti gli altri costi, ndr) crollato a 5,2 euro/MWh. Un valore già insufficente a remunerare gli investimenti fatti: la situazione era già drammatica per questi impianti. La colpa dunque non è esclusivamente della concorrenza delle rinnovabili. Naturalmente il balzo della produzione da fotovoltaico avvenuto nel 2011 ha aggravato ulteriormente le cose (per la concorrenza a costo marginale zero e con priorità di dispacciamento durante le ore diurne, ndr). Nel 2011 quando si è iniziato ad avvertire l’effetto FV lo spark spread è sceso a 2,3 e per quest’anno si può prevedere che si arrivi a uno spark spread addirittura negativo.

Perché negli anni passati, quando si era in tempo per fermarsi, non si è capito che realizzando questi impianti si sarebbe andati incontro a una situazione di overcapacity come quella attuale?

Si era capito eccome invece, come dimostra quanto scritto nella relazione annuale di Assoelettrica del 2006: vi si esprimeva soddisfazione perché la nuova potenza da cicli combinati allora in esercizio o in via di realizzazione garantiva un parco elettrico “con un adeguato margine di riserva”. E questo tenendo conto anche che nello stesso documento si stimava che l’Italia non sarebbe riuscita a raggiungere gli obiettivi europei sulle rinnovabili e, dunque, si sovrastimava il margine di riserva necessario. Ciononostante dal 2006 al 2011 si sono aggiunte ugualmente altre diverse migliaia di megawatt di centrali. Insomma la crisi da sovraccapacità era stata annunciata dagli stessi produttori elettrici. Un errore consapevole.

Ma allora perché investire in un impianto che poi avrà difficoltà a ripagarsi per l’eccesso di offerta?

Questo non lo capisco neanch’io, tanto che sono rimasto sorpreso nel leggere la relazione del 2006 di Assoelettrica. Diciamo che le scelte sbagliate non sono rare nel nostro Paese.

A questo proposito ricordiamo che c’era chi voleva realizzare in Italia 4 nuove centrali nucleari, facile pensare all’impatto devastante che avrebbero avuto in termini di overcapacity. Perché ai tempi del rinascimento nucleare berlusconiano non si è sentita la voce contraria dei produttori termoelettrici, per esempio tramite Assoelettrica?

Dal 2008 al 2011 tra i motivi che mi hanno sempre reso abbastanza tranquillo sul fatto che il nucleare non si sarebbe fatto è che ci sarebbe stata un’opposizione violenta al nucleare dei produttori da cicli combinati. Se da Assoelettrica non è arrivata una presa di posizione contraria è perché come si dice “lupo non mangia lupo”: in Assoelettrica c’è anche chi voleva il nucleare, il socio più autorevole è Enel. All’interno, i produttori da cicli combianti invece remavano contro. Ma affrontare la questione avrebbe voluto dire spaccare Assoelettrica in due.

Tornando al presente, nel Decreto sviluppo si introduce il capacity payment, un salvagente proprio per i cicli combinati, cosa pensa di questa misura?

Sul capacity payment ho un approccio molto laico. I cicli combinati sono l’impianto tradizionale più flessibile; in una situazione come quella italiana, in cui ci sono 25 miliardi di euro di investimenti fatti in questi impianti, ora a rischio assieme ai posti di lavoro collegati, è prioritario usare i cicli combinati, aumentandone le flessibilità, come back-up per la produzione non programmabile delle rinnovabili.

Ma in questo modo non si penalizza l’efficienza del sistema elettrico, dato che, per fare da back up alla non programmabilità della produzione da rinnovabili, si pagano questi impianti frutto di investimenti sbagliati, anziché sviluppare soluzioni alternative come realizzare sistemi di accumulo o utilizzare meglio quelli esistenti?

Gli accumuli sono importanti e in certe funzioni sono insostituibili, ma un Paese che ha 25 miliardi investiti negli impianti a cicli combinati non può non usare questo strumento come back-up per le rinnovabili. Un altro discorso è invece assicurarsi che, a partire da questa corretta motivazione, non si premino i cicli combinati più di quanto necessario. Il capacity payment deve pagare la funzione oggettiva che svolgono, che può essere anche monetizzata pensando al fatto che venga a costare meno di un sistema alternativo, come un accumulo. Il problema dunque non è capacity payment sì o no, ma come.

Ma affidandoci a questa soluzione non rischiamo di restare indietro su investimenti importanti come quelli per sviluppare nuove tecnologie per gli accumuli?

I sistemi di accumulo hanno comunque altre funzioni, per esempio sono essenziali nelle reti di distribuzione. Una strategia energetica valida ed efficiente dovrebbe sviluppare gli accumuli per assolvere a quelle funzioni che i cicli combinati non riescono ad assolvere, che sono comunque molte. I cicli combinati vanno sfruttati per l’investimento enorme che vi è stato fatto: se così non fosse, quei 25 miliardi li pagheremmo comunque in altri modi.

Che conseguenze si avrebbero e per chi se quei 25 miliardi andassero in fumo? Di chi sono?

Sono stati investiti da chi ha fatto gli impianti, ma finanziati con il project financing, dunque alla fine gli investiementi vengono dalle banche. Non sfruttando i cicli combinati si metterebbero in crisi le banche italiane. La cifra investita è semplicemente troppo grossa per lasciar fallire questi investimenti. Senza contare la ricaduta occupazionale, la colpa della quale poi verrebbe data alle rinnovabili. Non ci resta che sfruttare il capacity payment come possibilità tecnica, facendo attenzione che la remunerazione sia adeguata e sviluppando nel frattempo le tecnologie degli accumuli proritariamente in quelle funzioni non coperte dai cicli combinati. Come si diceva: “la politica seria alla fine è l’arte di un serio compromesso”.

Forse gli interventi di ammodernamento della rete elettrica potranno portare un sollievo agli impianti a cicli combinati?

No, non basterebbe. Anche se il quinto conto energia bloccherà la crescita del fotovoltaico, già la potenza che abbiamo e avremo a fine 2012 è sufficiente a mettere in difficoltà i cicli combinati, a questo si aggiunga che la domanda elettrica non crescerà per 2-3 anni per motivi congiunturali e per gli obiettivi di efficientamento che abbiamo. E poi da qui al 2020 non crescerà se non minimamente.

La quota di carbone nel mix elettrico nazionale è in aumento: non è un paradosso dati i tre problemi che abbiamo, ossia overcapacity, necessità di decarbonizzare la produzione e difficoltà economiche di impianti più flessibili e relativamente meno inquinanti come i cicli combinati a gas?

Sono assolutamente d’accordo che occorra bloccare lo sviluppo del carbone. Va ricordato però che in Italia al momenti si parla di conversione a carbone di centrali a olio combustibile, non di nuove centrali. Quindi, dal punto di vista dell’overcapacity, a non convertire queste centrali la questione non cambierebbe, se non dal punto di vista delle emissioni di CO2.

Si tratterebbe almeno di fare uscire dal mercato gli impianti più inquinanti …

Essendo un sistema liberalizzato non si può impedire a un’azienda di tenere in funzione un impianto, manca uno strumento normativo per farlo. E posso assicurare, grazie a uno studio che sto facendo sugli impianti che potrebbero uscire dal mercato per decisioni economiche delle stesse aziende, che da qui al 2020 il problema dell’overcapacity non sarà risolto. Anche grazie all’efficienza energetica, infatti, la domanda elettrica non crescerà tanto da colmare l’eccesso di potenza installato. Questo è uno dei motivi per cui nel recente documento sulla strategia energetica nazionale (realizzato assieme ad Assoelettrica, ndr), Confindustria frena sull’efficienza, che era sempre stata un suo cavallo di battaglia, mettendo in guardia sui “rendimenti decrescenti” di alcuni interventi di efficienza: in pratica si sta dicendo di stare attenti a non fare troppa efficienza visto che già la domanda è scarsa.

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