Lo sviluppo sostenibile, dopo 20 anni torna a Rio

Nel giugno 2012 si svolgerà a Rio de Janeiro la nuova Conferenza delle Nazioni Unite sullo sviluppo sostenibile (Rio+20). Gli obiettivi: assicurare un impegno politico per lo sviluppo sostenibile, attuare gli impegni già presi e non ottemperati, affrontare le nuove sfide emergenti. Un articolo di Gianfranco Bologna, direttore scientifico di Wwf Italia.

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Nel 2012 la comunità internazionale si è data un importante appuntamento, quello di una nuova grande Conferenza delle Nazioni Unite sullo sviluppo sostenibile a Rio de Janeiro. Questo evento avrà luogo quaranta anni dopo la prima conferenza delle Nazioni Unite sulle problematiche ambientali (la Conferenza delle Nazioni Unite sull’ambiente umano) tenutasi a Stoccolma nel giugno 1972 e venti anni dopo la Conferenza delle Nazioni Unite sull’ambiente e lo sviluppo tenutasi sempre a Rio de Janeiro nel giugno del 1992 e nota come Earth Summit.

Nel 2002, l’anno dopo l’attentato alle Torri Gemelle di New York, ebbe luogo anche il Summit ONU sullo Sviluppo Sostenibile a Johannesburg. Tutti questi eventi si sono conclusi con l’approvazione di vari documenti (come l’Agenda 21, il piano per lo sviluppo sostenibile del 21° secolo), piani di implementazione, dichiarazioni, avvio di strutture come il Programma Ambiente delle Nazioni Unite (UNEP United Nations Environment Programme) e la Commission on Sustainable Development (CSD), la firma di importanti convenzioni internazionali, come quella sui cambiamenti climatici e quella sulla biodiversità (in occasione dell’Earth Summit del 1992), ecc.

La Conferenza del 2012, detta anche Rio+20, mira a perseguire tre obiettivi: assicurare che venga rinnovato l’impegno politico in favore dello sviluppo sostenibile, effettuare una valutazione di ciò che è stato fatto e dare attuazione agli impegni già presi e che non sono stati sin qui ottemperati e affrontare le nuove sfide emergenti. Ma l’oggetto centrale della Conferenza sarà costituito da due tematiche oggi molto importanti e significative: quella della concretizzazione di una “Green Economy” nell’ambito dello sviluppo sostenibile e della lotta alla povertà e il quadro istituzionale della governance per l’attuazione dello sviluppo sostenibile. Si tratta di due temi molto significativi, più che mai nella complessa situazione globale in cui ci troviamo e non è un caso quindi che la Conferenza possa stimolare attese particolarmente impegnative. La grave crisi finanziaria ed economica che attraversano le nostre società dal 2008, anche se per cause diverse, palesa, in maniera sempre più evidente, l’inadeguatezza di un modello socio-economico fortemente centrato su visioni di crescita economica continua e di eccessiva finanziarizzazione del sistema economico, e si incrocia pesantemente con gli effetti di un crescente e devastante deficit ecologico.

Lo stesso UNEP ha provveduto, da qualche anno, a lanciare un suo specifico programma sulla Green Economy, considerata una declinazione operativa della sostenibilità, che ha prodotto interessanti documenti, compreso un vero e proprio “Green Economy Report”, il GER, pubblicato agli inizi del 2011. Il programma di Green Economy dell’UNEP (vedasi ) ha visto avvicendarsi due economisti di spicco come coordinatori dello stesso, l’inglese Edward Barbier e l’indiano Pavan Sukhdev, noti esperti di questi problemi (Sukhdev ha proprio recentemente diretto l’autorevole assessment internazionale definito TEEB – The Economics of Ecosystems and Biodiversity).

Nelle riunioni preparatorie della Conferenza (le riunione dell’apposito Preparatory Committe – Prep Com) diversi Paesi hanno fatto presente che non è opportuno individuare un’unica definizione di green economy che accontenti tutti, soprattutto i piccoli Paesi preoccupati che si possa trattare di una definizione che provochi l’imposizione di ulteriori standard qualitativi per bloccare le loro esportazioni o per innalzare nuove barriere doganali. Piuttosto si tratta di assicurare le condizioni che consentano a tutti di sviluppare la green economy entro i propri confini, con la necessaria varietà di ispirazione. Vi è stata ovviamente anche la richiesta che l’efficacia della green economy possa essere provata dalla sua capacità di generare nuova occupazione e nuovi “Green Jobs”.

Sostenibilità al rallentatore

Nelle prime riunioni preparatorie si è ritenuto importante sottolineare la necessità di un maggiore impegno per lo sviluppo sostenibile e quindi di analizzare le difficoltà, i problemi e le deficienze che hanno impedito la realizzazione dei piani di azione delle precedenti conferenze mondiali sull’ambiente e la necessità di rafforzare concretamente gli strumenti come lo stesso UNEP e la Commissione ONU per lo Sviluppo Sostenibile, di non considerare la Green Economy come un nuovo termine che sostituisce lo sviluppo sostenibile, ma di considerarlo piuttosto come una sua attuazione operativa.

Nella seconda riunione del Prep Com che ha avuto luogo nel marzo scorso si è discusso delle modalità di preparazione del documento finale di Rio+20. È stato richiesto da tutti gli Stati membri un processo inclusivo e partecipato che dovrà portare alla preparazione della prima bozza, “zero draft”, non oltre il gennaio 2012. Gli Stati membri e tutti gli stakeholder accreditati dovevano presentare i loro contributi entro il 1 novembre 2011 (esiste il sito web della Conferenza).

Questa ampia partecipazione consentirà di avere una discussione necessaria all’elaborazione del draft zero in una riunione apposita della Commissione per lo Sviluppo Sostenibile che avrà luogo alla metà di dicembre 2011. Sarà poi organizzata una serie ravvicinata di incontri informali su base mensile con l’obiettivo di definire al meglio nei primi mesi del 2012 la bozza di proposta di documento finale. La pubblicazione del rapporto dell’UNEP – “Towards a green economy, pathways to sustainable development and poverty eradication”, un rapporto di 600 pagine che è provvisto anche di una sintesi più breve per i Policy Makers – fornisce un interessante contributo al chiarimento di molte delle questioni poste negli incontri precedenti e di molte delle diffidenze dei Paesi emergenti, anche perché si prende atto che molte delle più importanti esperienze di green economy sono in corso in questa parte del mondo, in Cina, India e Brasile. Il Prep Com ha richiesto un’enfasi a una dimensione di Blue Economy nella Green Economy, con l’obiettivo di sottolineare il grave problema degli ecosistemi marini e oceanici, particolarmente minacciati dai cambiamenti climatici, dallo sfruttamento delle risorse ittiche e dall’inquinamento, nonostante gli impegni precisi assunti con il Piano di Implementazione della Conferenza di Johannesburg e puntualmente disattesi.

Il Prep Com affronta anche la questione della governance dello sviluppo sostenibile sottolineando l’insufficiente performance della Commissione per lo Sviluppo Sostenibile. Apprezzamenti sono rivolti al lavoro dell’UNEP che ha operato bene, anche al di là del suo mandato, come appare anche dai recenti contributi sui Green Job e la Green Economy. Vi è qualche idea relativa a una sua trasformazione in un’Agenzia per lo sviluppo sostenibile ma gli Stati africani non desiderano che l’UNEP lasci la sua sede di Nairobi. L’ultima riunione della Commissione per lo Sviluppo Sostenibile – tenutasi a maggio e incentrata particolarmente sul programma di lavoro in merito ai modelli di Produzione e Consumo (SCP), nodo centrale di un modello economico sempre più alla sbarra – ha avuto un esito deludente.

La Commissione pur cercando di affrontare le tematiche per l’applicazione concreta dell’Agenda 21 approvata a Rio nel 1992 e degli altri piani di azione successivi, con tentativi di integrazione tra gli aspetti economico, sociali e ambientali dello sviluppo, ha avuto serie difficoltà a essere incisiva e concreta. Pur essendo la struttura più alta della politica per lo sviluppo sostenibile in ambito ONU, assecondando situazioni di equivoco condiviso dalle amministrazioni di molti Paesi, ha spesso riunito assemblee di Ministri dell’ambiente con l’assenza sistematica dei Ministri economici e sociali. Al centro della riconsiderazione dell’intero quadro della governance mondiale multilaterale dello sviluppo sostenibile, la CSD dovrà essere inevitabilmente riformata a Rio+20. Questo, in sintesi, è il punto in cui ci troviamo ora per quanto riguarda il quadro della preparazione in senso politico diplomatico della Conferenza ma, come è ben possibile immaginare, attorno a questo evento si stanno muovendo importanti ambiti della scienza, della cultura e della società civile che non vogliono assistere, in un momento gravissimo per le società umane di tutto il Pianeta, a un nuova kermesse mediatica che poi fallisce nella pratica.

Tracciare i confini

I cosidetti “Planetary Boundaries”, i nostri “confini planetari” che gli scienziati hanno iniziato a indicarci, vengono ritenuti un tema centrale con il quale la politica e l’economia devono fare i conti, per l’autorevolissima comunità scientifica raccolta nell’International Council for Science (ICSU), la più grande organizzazione scientifica mondiale e nell’Earth System Science Partnership (ESSP) che raccoglie i maggiori programmi internazionali di ricerca sul cambiamento globale e che ha organizzato una Conferenza scientifica internazionale a Londra nel marzo 2012, dal titolo “Planet Under Pressure” per indicare il percorso scientifico da seguire per Rio+20. Sin dalla pubblicazione su Nature del primo lavoro sui Planetary Boundaries nel settembre del 2009 (Rockstrom J et al., 2009, A Safe Operating Space for Humanity, Nature, vol. 461; 472-475) questo dibattito è andato avanti. Quella pubblicazione, frutto della collaborazione di 29 tra i maggiori scienziati delle scienze del sistema Terra e della scienza della sostenibilità, tra i quali il premio Nobel, Paul Crutzen, è dedicata a sottolineare come il nostro impatto sui sistemi naturali stia facendo preoccupare l’intera comunità scientifica, perché in molte situazioni siamo vicini a punti critici (a vere e proprie “soglie”), oltrepassati i quali gli effetti a cascata che ne derivano possono essere devastanti per l’umanità. Per questo motivo i 29 scienziati indicano quelli che loro definiscono “i confini del Pianeta” che l’intervento umano non può superare, pena effetti veramente negativi e drammatici per tutti i sistemi sociali. Il rapporto ricorda che la specie umana ha potuto godere negli ultimi 10.000 anni (nel periodo geologico definito Olocene dell’era Quaternaria) di una situazione, pur nelle ovvie dinamiche evolutive che interessano tutti i sistemi naturali, di discreta stabilità delle condizioni climatiche e ambientali che ci hanno consentito di incrementare il numero di esseri umani e anche le nostre capacità di utilizzo e trasformazione delle risorse.

Oggi invece, secondo la comunità scientifica ci troviamo in un nuovo periodo, definito proprio dal Paul Crutzen Antropocene a dimostrazione di come la pressione umana sui sistemi naturali del Pianeta sia diventata talmente pesante ed evidente da essere paragonabile alle grandi forze geologiche che hanno modificato la Terra durante l’arco di tutta la sua vita. Gli studiosi ci ricordano che esiste un grave rischio per l’umanità dovuto all’inaccettabile cambiamento prodotto da noi stessi nel passaggio dall’Olocene all’Antropocene.

Questa pressione è oggi a livelli veramente elevati, come ci dimostrano tutte le ricerche del Global Environment Change (il cambiamento ambientale globale) oggetto di approfondite analisi da parte di tutti gli scienziati del sistema Terra (vedasi il sito www.essp.org). Pertanto i 29 scienziati hanno individuato, nell’analisi pubblicata su Nature che rimanda a un rapporto più esteso pubblicato sulla rivista Ecology and Society  nnove grandi “confini”planetari e sottolineano che, per tre di questi, le ricerche svolte sin qui dimostrano che siamo già oltre il “confine” che non avremmo dovuto sorpassare. Questi nove confini indicati sono: il cambiamento climatico, l’acidificazione degli oceani, la riduzione della fascia di ozono nella stratosfera, la modificazione del ciclo biogeochimico dell’azoto e del fosforo, l’utilizzo globale di acqua, i cambiamenti nell’utilizzo del suolo, la perdita di biodiversità, la diffusione di aerosol atmosferici, l’inquinamento dovuto ai prodotti chimici antropogenici.

Oltre i limiti

Per tre di questi e cioè cambiamento climatico, perdita di biodiversità e ciclo dell’azoto siamo già oltre il confine indicato dagli scienziati. Per il cambiamento climatico si tratta sia della concentrazione dell’anidride carbonica nell’atmosfera (calcolata in parti per milione di volume -ppm-) che del cambiamento del forcing radiativo, cioè per dirla in maniera molto semplice la differenza tra quanta energia “entra” e quanta “esce” dall’atmosfera (calcolata in watt per metro quadro). Per la concentrazione di anidride carbonica nel periodo preindustriale eravamo a 280 ppm, oggi siamo a 387 (il dato attuale è già a 390 ppm) e dovremmo scendere, come obiettivo, al confine già superato di 350 (immaginatevi la portata della sfida di questo limite che, tra l’altro, non è affatto oggetto di discussione per le ultime conferenze delle Parti della Convenzione Quadro sui Cambiamenti Climatici; quella a Durban in Sud Africa, ha trattato percentuali di riduzioni di emissioni di gas climalteranti che porterebbero a concentrazioni di CO2 nella composizione chimica dell’atmosfera ben superiori alle 350 ppm indicate).

Per quanto riguarda il forcing radiativo in era preindustriale è calcolato zero, oggi è 1,5 watt per metro quadro, il confine accettabile viene indicato dagli studiosi a 1 watt per metro quadro. Per la perdita di biodiversità si valuta il tasso di estinzione, cioè il numero di specie estinte per milione all’anno. A livello preindustriale si ritiene che questo tasso fosse tra 0,1 e 1, oggi viene calcolato a più di 100, deve invece rientrare, come obiettivo, nel confine ritenuto accettabile di 10. Per il ciclo dell’azoto si calcola l’ammontare di azoto rimosso dall’atmosfera per utilizzo umano (in milioni di tonnellate l’anno). A livello preindustriale si ritiene che tale ammontare fosse zero, oggi è calcolato in 121 milioni di tonnellate l’anno, mentre il confine accettabile, come obiettivo, viene indicato in 35 milioni di tonnellate annue.

Così gli studiosi indicano i confini, dove lo ritengono possibile, anche per gli altri sei ambiti prima ricordati (per ogni ulteriore informazione è bene visitare il sito dell’autorevole Stockholm Resilience Centre i cui direttori Carl Folke e Johan Rockstrom sono tra gli autori del rapporto). A febbraio di quest’anno, in un’importante pubblicazione scientifica apparsa sulla rivista Environmental Research Letters dal titolo “Reconsiderations of the planetary boundary for phosphorus”, due grandi esperti in materia, Stephen Carpenter dell’Università di Wisconsin-Madison ed Elena Bennett della McGill University, hanno dimostrato che il confine planetario per l’eutrofizzazione provocata negli ecosistemi di acqua dolce da parte dell’inquinamento da fosforo si è già incrociato con gli eventi di anossia nelle zone degli oceani e dei mari dove si verifica la perdita di tante forme di vita dovute proprio all’eccesso di fosforo derivante dall’inquinamento agricolo e urbano.

Gli autori fanno presente che il lavoro originale apparso su Nature relativo ai Planetary Boundaries, non ha considerato i fenomeni di eutrofizzazione degli ecosistemi di acqua dolce, focalizzandosi solo su quelli marini. Considerando Carpenter e Bennett, come hanno fatto con i loro calcoli, il nostro confine planetario sul fosforo è già superato. Il fosforo è un elemento essenziale alla vita ma la sua produzione industriale non solo erode le disponibilità degli stock di fosforo, presenti sul Pianeta concentrati in poche nazioni e con un rischio di esaurimento in tempi molto brevi nei prossimi venti anni, ma il suo eccesso nelle acque è la causa primaria delle proliferazioni algali (alcune delle quali contengono i Cianobatteri tossici) che degradano la qualità delle acque, inquinandole e privandole della vita. I depositi di fosfati che costituiscono miniere importanti per l’agricoltura ci hanno messo milioni di anni per formarsi (le nazioni con le riserve maggiori sono Stati Uniti, Cina e Marocco), ed è una pura follia distruggerli in tempi brevi provocando un drammatico inquinamento da fosforo.

Scienza inascoltata

Gli avvertimenti del mondo scientifico non possono restare a lungo inascoltati. Il dibattito che si sta scatenando sui contenuti e gli obiettivi che si vorrebbero raggiungere in occasione della Conferenza, sono molto interessanti. Una proposta che viene dalla Colombia e che sembra essere appoggiata da altri Paesi (compreso lo stesso Brasile che ospita la Conferenza) è che Rio+20 approvi quelli che verrebbero definiti Millennium Sustainable Development Goals, a imitazione dei Millennium Development Goals (MDGs), approvati dall’Assemblea generale speciale delle Nazioni Unite del 2000. Obiettivi che implicherebbero, ovviamente, l’adozione di una serie di indicatori e di target per almeno i prossimi 20-30 anni. Mohan Munasinghe, un noto esperto dello Sri Lanka, professore in diverse Università (compresa quella di Cambridge) e già vice presidente dell’IPCC, ha proposto la discussione e l’approvazione dei Millennium Consumption Goals, mirati all’eliminazione delle disuguaglianze e al principio di equità, principio fondamentale della sostenibilità (vedasi www.mohanmunasinghe.com e www.millenniumconsumptiongoals.org). Ha chiaramente fatto presente che i Millennium Development Goals sono obiettivi riguardanti soprattutto i Paesi poveri, mentre i Millennium Consumption Goals dovrebbero essere obiettivi riguardanti soprattutto impegni da realizzare direttamente nei Paesi ricchi per ridurre il loro consumo e rendere più equi i processi di sviluppo planetari.

Questo dibattito riguardante l’indicazione di limiti e di un periodo entro il quale devono essere raggiunti costituisce inevitabilmente un tema crescente e sempre più vivace, perché è sempre più diffusa la consapevolezza che non si riuscirà a rispondere seriamente all’attuale sfida della drammatica situazione ecologica ed economica delle nostre società, se non si comincerà a operare su chiari livelli di riduzione del consumo di energia, materie prime e “natura”, soprattutto da parte dei ricchi del Pianeta. Questo significa, inevitabilmente, indicare dei “tetti”, delle soglie di consumo pro capite, oltre i quali non è consentito andare, proprio per mantenere le nostre capacità di vivere nei limiti di un solo Pianeta che costituisce la sfida centrale della sostenibilità. Dei tetti di consumo pro capite si è discusso anche al recentissimo World Resources Forum che ha avuto luogo a Davos in Svizzera, dal 19 al 21 settembre, per fare il punto sullo stato delle risorse del Pianeta, i flussi di materia delle nostre economie e le soluzioni da intraprendere per cambiare rotta a un modello di sviluppo socio-economico che appare sempre più insostenibile. Il Forum ha richiamato fortemente, nei suoi documenti finali, la necessità urgente di raddoppiare l’efficienza nell’uso delle risorse a livello planetario. Il Forum sottolinea il fatto che la produttività delle risorse costituirà un driver chiave per lo sviluppo economico dei decenni a venire.

Diventa quindi sempre più importante stabilire economie basate sull’efficiente utilizzo delle risorse, su di una fiscalità che trasferisca il peso delle attuali tassazioni sul lavoro all’utilizzo delle risorse e all’inquinamento prodotto e su chiari indicatori e obiettivi. L’adozione della famiglia degli indicatori delle “impronte” (quali impronta ecologica, impronta di carbonio, impronta idrica, impronta di materia ecc.) può essere molto utile anche per contribuire a una maggiore trasparenza nei confronti dei consumatori.

A livello mondiale oggi l’umanità utilizza ed estrae dai sistemi naturali almeno 100 miliardi di tonnellate di materia l’anno, circa 14 tonnellate a persona (ovviamente esistono forti differenze tra i flussi di materia pro capite degli abitanti dei Paesi ricchi, che utilizzano anche molte risorse provenienti da altre nazioni, e quelli dei Paesi poveri). Esiste quindi un’urgente necessità di de-materializzare le nostre economie, riducendo fortemente l’impiego di materie prime per la produzione di beni e servizi e riducendo significativamente l’utilizzo dell’acqua e del suolo. Nell’ambito del ben noto Factor 10 Institute, il famoso studioso di flussi di materia Friederich Schmidt-Bleek, che ne è il fondatore e presidente, da anni propone un tetto di 6 tonnellate a persona annue, con lo scenario di ciò che egli definisce “The 6 Ton Society” (la società delle 6 tonnellate).

Di tutte queste proposte inevitabilmente si dovrà discutere nella Conferenza delle Nazioni Unite sullo Sviluppo Sostenibile che avrà luogo a giugno del 2012 a Rio de Janeiro. Ci auguriamo tutti che il senso di responsabilità prevalga, più che mai in un momento così drammatico per le nostre società e per i sistemi naturali che ci sostengono.

L’articolo è stato pubblicato sul n.5/2011 della rivista bimestrale QualEnergia con il titolo “Imprevisti vantaggi”.

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