Texas Italia

  • 7 Ottobre 2010

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Incrementare le trivellazione è un obiettivo del Governo italiano che ha portato ad una  nuova corsa all'oro nero: migliaia di chilometri quadrati dati in concessione per nuove ricerche di petrolio, spesso anche in zone sensibili e tutelate da normative nazionali e comunitarie. Uno studio di Legambiente ripreso dall'ultimo numero della rivista QualEnergia.

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In Italia nel 2009 sono state estratte 4,5 milioni di tonnellate di petrolio, circa il 6% dei consumi totali nazionali di greggio. Il resto è importato dall’estero. Ma la quantità rischia di aumentare, perché oggi – in nome di una presunta indipendenza energetica – stanno aumentando sempre di più le istanze e i permessi di ricerca di greggio nel mare e sul territorio italiano. Una ricerca forsennata per individuare ed estrarre i 129 milioni di tonnellate ancora recuperabili, secondo le stime del Ministero dello Sviluppo Economico. Ma il gioco vale la candela?


Nel migliore (o peggiore, dal nostro punto di vista) dei casi in cui si riesca a estrarre tutto il petrolio recuperabile nel sottosuolo italiano la quantità ottenuta sarebbe sufficiente, ai consumi attuali, a garantire l’autonomia per soli 20 mesi in più. Ma nel frattempo avremmo messo una grave ipoteca sullo sviluppo futuro e sulla tutela di ampie aree del mare e del territorio italiano. Come risulta dal dossier “Texas Italia” di Legambiente l’attività estrattiva di petrolio in Italia si svolge sia a terra (nel 2009 si sono estratte 4 milioni di tonnellate) sia nei fondali marini (circa 525.000 tonnellate).
Oltre alla Basilicata, storicamente sede dei più grandi pozzi, dove si estrae oltre il 70% del petrolio nazionale proveniente dai giacimenti della Val d’Agri di proprietà di Eni e Shell, le Regioni in cui sono presenti pozzi a terra sono Emilia Romagna, Lazio, Lombardia, Molise, Piemonte e Sicilia.

Nel mare le piattaforme attive sono 9 per un totale di 76 pozzi da cui si estrae olio greggio: 2 sono localizzate di fronte alla costa marchigiana (Civitanova Marche – MC), 3 di fronte a quella abruzzese (Vasto – CH) e le altre 4 nel canale di Sicilia tra Gela e Ragusa. Sulle oltre 500mila tonnellate estratte nel 2009, il 50% circa proviene dalle piattaforme denominate Rospo Mare di proprietà di Edison tra l’Abruzzo e il Molise.
Numeri destinati a crescere se andassero in porto tutte le richieste per ottenere un permesso di ricerca e se quelli già rilasciati dessero esito positivo per la presenza di greggio.
A oggi sono stati rilasciati tra terra e mare 95 permessi di ricerca di idrocarburi, di cui 24 a mare, interessando un’area di circa 11mila kmq, e 71 a terra, per oltre 25mila kmq. A queste si devono aggiungere le 65 istanze presentate solo negli ultimi due anni, di cui ben 41 a mare per una superficie di 23mila kmq.

La corsa all’oro nero, stando anche alla localizzazione delle riserve disponibili, riguarda le aree del Mar Adriatico centro-meridionale, dello Ionio e del Canale di Sicilia. Ma nuove istanze di ricerca sono state avanzate anche per il golfo di Cagliari e quello di Oristano in Sardegna e per un’area che tra le isole del Parco nazionale dell’arcipelago toscano. Tra le ultime istanze pubblicate sul Bollettino ufficiale degli idrocarburi e delle georisorse (BUIG) del Ministero dello Sviluppo Economico, ad esempio, è stata presentata dalla Petroceltic Italia (società della irlandese Petroceltic Elsa) una richiesta per un’area a mare di 728,20 km quadrati (kmq) che si estende nel tratto antistante la costa abruzzese compresa tra Pineto e Vasto. La società irlandese ha di fatto monopolizzato negli ultimi anni le richieste di permessi di ricerca nell’intero specchio di mare compreso tra la costa teramana e le isole Tremiti. Queste ultime in particolare sono minacciate anche da un’altra richiesta per un’area di mare di 730 kmq a ridosso delle isole, mentre anche il tratto di fronte alle coste pugliesi, da Monopoli al Salento, è interessato da istanze di permessi di ricerca.

Le richieste si sono trasformate invece in concessioni rilasciate per la ricerca di idrocarburi a Taranto dove la Shell ha appena ottenuto il via libera per la ricerca in un’area di 1.300 kmq circa su cui aveva presentato l’istanza nel novembre 2009.
La minaccia grava anche sulla Sardegna, dove pendono due recenti istanze della Saras e due più datate della Puma Petroleum, per un totale di 1.838 kmq nel golfo di Oristano e in quello di Cagliari; la stessa società detiene una richiesta anche nello splendido specchio di mare tra l’isola d’Elba e quella di Montecristo, 643 kmq in pieno Santuario dei cetacei all’interno del Parco dell’arcipelago toscano. È recente infine la notizia della partenza di una nave commissionata dalla Shell, che ha il compito di eseguire studi e prospezioni per individuare quello che viene considerato, usando le parole della stessa Shell Italia, «un autentico tesoro» che porterebbe l’Italia a confermarsi «il Paese con più idrocarburi dell’Europa continentale». Peccato che anche in questo caso le attività estrattive mal si combinerebbero con l’area marina protetta delle isole Egadi e con un’economia basata prevalentemente su turismo e pesca.

Una “lottizzazione” del mare italiano che avanza inesorabilmente proprio quando l’attenzione internazionale è concentrata sulle conseguenze del disastro ambientale nel golfo del Messico, causato dall’imperdonabile gestione dell’incidente alla piattaforma petrolifera Deepwater Horizon da parte della British Petroleum. In seguito a questo gravissimo evento, sono state davvero propagandistiche le risposte date dal nostro Governo, alle sollecitazioni emerse da più parti per prevenire simili sciagure nel Mediterraneo. Il 3 maggio scorso, l’ex ministro Scajola ha convocato i rappresentanti degli operatori offshore per avere notizie sui sistemi di sicurezza ed emergenza delle piattaforme presenti nei mari italiani. Ma alle dichiarazioni non sono seguite azioni concrete.


Inoltre il risanamento per un incidente come quello americano nel nostro Paese non sarebbe risarcito in maniera adeguata dai responsabili. Infatti a oggi le nostre leggi non hanno ancora risolto il problema del risarcimento in caso di disastro ambientale e le piattaforme non sono coperte dalle convenzioni internazionali come il fondo IOPC – International Oil Pollution Compensation.
Altrettanto propagandistico ci è sembrato il provvedimento preso dal Governo italiano nello schema di decreto di riforma del codice ambientale, approvato in Consiglio dei ministri su proposta del ministro dell’Ambiente Stefania Prestigiacomo.
Si prevede il divieto di ricerca, prospezione ed estrazione di idrocarburi all’interno delle aree marine e costiere protette e per una fascia di mare di 12 miglia attorno al perimetro esterno delle zone di mare e di costa protette. Le attività di ricerca ed estrazione di petrolio verrebbero vietate anche nella fascia marina di 5 miglia lungo l’intero perimetro costiero nazionale. Al di fuori di queste aree in cui vigerebbe il divieto, le attività di ricerca ed estrazione di idrocarburi verrebbero sottoposte a valutazione di impatto ambientale. La norma si applicherebbe anche ai procedimenti autorizzativi in corso.


Si tratta di un provvedimento dall’efficacia davvero relativa. La norma non si applica infatti a pozzi e piattaforme esistenti. E poi cosa cambierebbe se un incidente avvenisse in un pozzo o una piattaforma localizzata al di là di 5 o 12 miglia dalle coste? In caso di incidente sarebbe comunque un dramma per i nostri mari e per il Mediterraneo: se spostassimo, infatti, la marea nera che ha inquinato il Golfo del Messico nell`Adriatico la sua estensione si spingerebbe da Trieste al Gargano. Si tratta poi di una norma che contraddice quanto lo stesso Governo Berlusconi aveva approvato con la Legge sviluppo del luglio 2009 (quella del ritorno del nucleare in Italia) quando aveva invece semplificato le procedure di Via (Valutazione di impatto ambientale) rendendo la corsa all’oro nero più semplice. In particolare la norma, ovviamente ancora vigente, riduce le procedure di Via  alla sola fase di autorizzazione alla perforazione dei pozzi esplorativi e di estrazione e di tutte le opere e gli impianti necessari a tale attività. Le istanze e i permessi di ricerca vengono invece valutati secondo un procedimento unico che coinvolge i diversi soggetti interessati.


Se l’area in questione è sulla terraferma oltre lo Stato vengono coinvolti anche gli Enti locali (Regioni, Province e Comuni), mentre se il permesso è per eseguire ricerche sui fondali marini è previsto solo il parere da parte dello Stato e gli Enti locali sono esclusi dalle procedure, anche quando si tratta di aree a ridosso della costa, in cui un’attività di questo tipo peserebbe non poco sulle attività economiche, turistiche e di altro tipo svolte dalle comunità che vivono sul mare.

Proprio la maggiore facilità delle procedure autorizzative e il mancato coinvolgimento delle comunità locali sono, insieme a un costo del barile che è tornato a livelli importanti, le cause principali della proliferazione delle istanze per i permessi di ricerca in mare. Richieste avanzate nella maggior parte dei casi da imprese straniere come la Northern Petroleum (UK) e la Petroceltic Elsa, che da sole rappresentano circa il 50% delle istanze presentate negli ultimi due anni per un totale di 11mila kmq, che rischiano di essere ceduti in nome del petrolio e di una fantomatica indipendenza energetica, che di certo non si ottiene attraverso un rilancio dell’estrazione petrolifera in Italia.

Le ultime stime di Assomineraria quantificano la rilevanza economica e occupazionale del settore estrattivo in Italia. Un’attività che spalmata nei prossimi 25 anni potrebbe far risparmiare al nostro Paese 100 miliardi di euro nelle importazioni di greggio dall’estero, 4 all’anno, e creare 34mila posti di lavoro. Dati importanti soprattutto in un momento di crisi economica come quello attuale ma che sono strettamente legati a una risorsa in esaurimento per cui destinati ad azzerarsi nel corso di pochi decenni lasciando ai territori e alle economie locali il problema del risanamento e del recupero delle aree occupate dalle trivelle. Di gran lunga preferibile è invece il vantaggio economico, ambientale e occupazionale che il nostro Paese potrebbe ottenere indirizzando gli investimenti in campo energetico non sui settori tradizionali e sulle fonti fossili ma per efficienza e sviluppo delle energie rinnovabili.


Investimenti resi obbligatori dagli obiettivi degli accordi internazionali sui cambiamenti climatici, a partire da quello europeo fissato per il 2020 (20% di risparmio energetico, 20% di produzione energetica da fonti rinnovabili, 20% di riduzione emissioni di CO2).
Un traguardo possibile anche per il nostro Paese che, secondo le stime della Commissione europea, se ne gioverebbe con un risparmio di 7,6 miliardi l’anno nel taglio delle importazioni di idrocarburi e di 0,9 miliardi di euro in meno nei costi per contrastare l’inquinamento. Sommando i due contributi si otterrebbe un risparmio di 8,5 miliardi di euro l’anno, senza contare i benefici di lungo termine sul piano dello sviluppo di un settore innovativo come quello delle rinnovabili, soprattutto in termini occupazionali. Solo per citare un dato, combinando le stime oggi disponibili l’intero settore delle fonti rinnovabili porterebbe nell’immediato futuro alla creazione di 150-200 mila posti di lavoro al 2020. Dati che ribadiscono l’assurdità di continuare a installare impianti di trivellazione ed estrazione di petrolio in aree che già vivono quotidianamente il rischio di inquinamento e sversamento da idrocarburi.


È necessario che il Governo metta in campo una seria politica di prevenzione e di controllo di tutte le attività, da quelle di estrazione fino al trasporto e alle azioni di carico e scarico delle petroliere. Un’azione attenta che coinvolga tutti i soggetti che operano nel settore e che venga regolata da una severa normativa nazionale che tuteli il mare e il territorio italiano garantendo, in caso di danno ambientale, che siano i responsabili a pagare il risanamento. Per andare in questa direzione è innanzitutto necessario mettere un freno a questa nuova corsa all’oro nero che sta aumentando con migliaia di chilometri quadrati dati in concessione per nuove ricerche di petrolio, spesso anche in zone sensibili e tutelate da normative nazionali e comunitarie. Aree in cui le vocazioni territoriali, culturali, ambientali ed economiche vanno in senso contrario rispetto all’ipotesi di diventare un distretto petrolifero con tutto quello che comporta in termini di degrado ambientale e rischio per le popolazioni e l’ambiente.

Stefano Ciafani (Responsabile scientifico di Legambiente), Giorgio Zampetti (Coordinatore scientifico di Legambiente), Angelo Di Matteo (Presidente di Legambiente Abruzzo)


articolo pubblicato sul numero 4/2010 della rivista QualEnergia (scarica pdf)

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